Il SARS-CoV 2 è una patologia di natura virale, contagiosa e potenzialmente mortale che colpisce le vie aree presentandosi con un carattere simil-influenzale. La sintomatologia generica, sovrapponibile ad altre affezioni respiratorie, rende difficoltosa la diagnosi differenziale determinando un radicale cambiamento nella gestione dei pazienti “sospetti Covid”.
Nel dicembre 2019, l’ignoto ceppo virale ha iniziato la sua diffusione in Cina mostrando in breve tempo la sua imprevedibilità; infettando l’intera regione di Wuhan portando ad una saturazione delle strutture sanitarie ed al loro collasso. Nell’immaginario collettivo un Paese così lontano non destava allarme; ma si sa, finché gli eventi non ci colpiscono personalmente tendono sempre a passare in secondo piano.
In Europa il primo paese ad essere severamente colpito è stato l’Italia. Grazie ad un sapiente lavoro di protezione civile e sanitario, la minaccia è stata arginata non senza però riportare delle ferite profonde destinate a cambiare il modus vivendi ed il rapporto diretto con il paziente. All’inizio dell’emergenza, gli operatori sanitari si sono trovati ad affrontare l’ignoto: non si sapeva come gestire i pazienti, come trattarli, dove ricoverarli e quali precauzioni prendere.
Ricordo ancora la prima chiamata per sospetto Covid, era un uomo anziano. Giunti al pronto soccorso abbiamo atteso due ore in ambulanza per permettere di organizzare l’accoglienza del paziente in totale sicurezza per gli operatori sanitari e per garantire le migliori cure al paziente stesso. In quelle due ore sull’ambulanza, ho pensato a tutti gli interventi effettuati, ai pazienti deceduti, ai pazienti salvati e tutte le situazioni che ho affrontato nella mia carriera da medico soccorritore del 118 e fu lampante che non mi ero mai trovato in una situazione simile o analogamente paragonabile. Ero davanti all’ignoto, mi sono trovato faccia a faccia con le mie paure ed insicurezze. Tra i civili i sentimenti erano diversi, c’era inconsapevolezza della pericolosità della malattia. La domanda giunse quasi spontaneamente, anche l’Italia si sarebbe ritrovata nella stessa situazione della Cina? In poco tempo la situazione è cambiata radicalmente, l’aumento dei casi e la comparsa dei decessi hanno alimentato esponenzialmente la paura di essere contagiati e di trasmetterlo alle persone care.
Personalmente il ruolo di medico impone di tenere i nervi saldi anche nelle più difficili avversità ma di fronte al Covid-19 la fragilità umana prende il sopravvento e si era spaventati da ciò che sarebbe successo all’indomani. Ero così spaventato che per due mesi non sono rientrato a casa, non so quante volte ho dormito in macchina o in postazione per proteggere le persone a me care.
Le chiamate per trasporto di “sospetto Covid” continuavano e sono diventate la quotidianità. Anche l’approccio dei civili e dei parenti dei pazienti prelevati era cambiato; c’ era più preoccupazione e consapevolezza dei rischi che il ricovero per Covid comportava. Ormai per ogni chiamata si applicava il protocollo per sospetto Covid, s’indossavano mascherina, divisa monouso, guanti e tutti i presidi DPI disponibili, le precauzioni non erano mai troppe. Ad oggi, nonostante una “tregua” estiva, i casi sono in progressivo aumento temendo una seconda ondata; perciò è fondamentale nella vita di tutti i giorni l’osservanza di alcune regole quali il mantenimento della distanza sociale, l’utilizzo delle mascherine e la corretta igiene delle mani. Queste, nella loro semplicità, sono dei potenti mezzi per contrastare la diffusione del virus anche se spesso si sottovalutano. Come mai prima di adesso bisogna dare prova di responsabilità, osservando queste semplici norme, non solo per la propria salvaguardia ma anche per quella del prossimo e per permettere lo svolgimento di una vita “normale” nel modo più sicuro possibile.
Dr. Alessandro Mostarda
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